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L’Istituto Marangoni ha organizzato il primo Fashion Education Market Monitor Summit. Un convegno per discutere assieme ai leader dell’offerta formativa privata e i delegati delle più importanti aziende del lusso Made in Italy, quale sia il ruolo della formazione, e quale l’evoluzione dei modelli organizzativi nel sistema moda, grazie alla prima ed influente ricerca che Marangoni ha affidato a Deloitte.

La formazione di moda nel complesso delle proposte di fashion education a livello globale ha una evaluation che si aggira attorno ai 760 milioni di euro e si sviluppa principalmente in Europa e Nord America. Un mercato che appare come frammentato, ma che va pian piano a consolidarsi e soprattutto a concentrarsi, verso il settore dell’education proposto dai grandi gruppi internazionali e dalla loro offerta formativa. Su scala globale, come riportano i dati della ricerca affidata a Deloitte, dal 2012 al 2016 la crescita, dunque riferito a chi si è iscritto alle scuole di moda, è stata del +6% trainata soprattutto da paesi come quelli dell’Asia e dell’Europa. Mentre per il solo mercato della fashion education italiana, essa vale 75 milioni e la crescita è stata stimata con un +9%. Nessun dato che però toglie il primato alle scuole francesi, ottimo invece l’imporsi delle italiane sul posizionamento di esperti in styling, reggendo tra l’altro molto bene il confronto competitivo con le scuole del Regno Unito e degli Stati Uniti sul fronte del design.

Un sistema che va analizzato con cura, bisogna tener conto anche del fatto che il 96% delle Start Up italiane fallisce e che nel nostro paese non ci sono grandi gruppi come LVMH, tanto per citarne uno, che hanno una capacità di investimento elevatissima anche nel settore della formazione.

Attorno a tutto questo, al trentunesimo piano del Pirelli Tower di Milano, l’Istituto Marangoni ha organizzato due tavole rotonde che hanno visto alternarsi nella discussione da una parte le aziende, dall’altra le accademie, cercando insieme di far fronte comune sul tipo di competenze che servono ad uno studente e quello che le aziende effettivamente cercano. Anni in cui il mercato si è mosso così tanto velocemente che si è perso per strada qualche pezzo fondamentale, come magari il sapiente savoir-faire della manifattura o dell’artigianato italiani. Come suggerisce Cucinelli, illuminato portavoce di un Capitalismo Umanistico imprescindibile, bisognerebbe reimpostare i rapporti basati sulla cura del dipendente. Come invece ribadisce l’altro ospite d’onore, Santo Versace, non è possibile che uscendo dalle scuole così tardi, poi, non si abbia la capacità di far nulla. Allora le aziende devono entrare nelle scuole, non solo l’insegnante che con programmi da sedici ore settimanali deve cercare di capire come organizzare il suo tempo, ma far in modo che l’alleanza e la partnership con la filiera e le maison, diventi sempre più frequente. Non si può più pensare di garantire solo progetti di tesi o brevi collaborazioni, ma bisogna guardare al modello inglese dove il British Fashion Council, supportato da una ventina di aziende organizza ad ogni Fashion Week il Graduate Fashion Show, un luogo dove i giovani talenti possono anche ricevere ingenti premi in denaro da investire nella loro azienda. Cosa che in Italia, nonostante le sue organizzazioni come Camera Moda, manca.

“Ci serve l’Università della moda” erano queste le parole con cui esordiva qualche tempo fa una nota testata del web. Un monito che tutt’ora rimane fresco, attuale, contemporaneo. La formazione, quella della moda, serve per far crescere il business di domani. Risultati eccelsi portati avanti dalle accademie, le scuole private, che nel corso degli anni hanno sfornato una lungimirante generazione di designer, ma non basta. Adesso, l’Istituto Marangoni si fa capofila di una flotta agguerrita di istituzioni come l’Accademia di Costume e Moda, lo IED e NABA, in cerca di un maggior numero di studenti stranieri ed un concreto placement di tutti i loro candidati. Cosa che Tommaso Nastasi, Partner di Deloitte e promotore del report, afferma con convinzione, dicendo che l’Italia, “sul fronte della fashion education, ha competenze, tradizioni, professionisti e strutture di primissimo livello. Si tratta di un asset sul quale l’intero sistema Paese ha il dovere di investire, a supporto dell’intero settore del fashion che, per competere, ha necessariamente bisogno di un capitale umano sempre più qualificato”.