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C’è una scena, verso il finale di The Last Showgirl, che ti stringe il cuore. Shelly, sola nel suo camerino, si osserva allo specchio non per vanità, ma per riconoscersi. È in quell’immagine riflessa, tra rughe e glitter, che prende forma il senso profondo dell’ultimo film di Gia Coppola: un atto d’amore – e di resistenza – verso le donne che rifiutano di essere cancellate.

Interpretata da una straordinaria Pamela Anderson, candidata ai Golden Globe 2025 come miglior attrice, The Last Showgirl non è solo una storia di resilienza ambientata nel luccicante e malinconico mondo delle showgirl di Las Vegas. È una dichiarazione politica e culturale sulla femminilità che invecchia, sulla maternità imperfetta, sulla libertà di scegliere sé stesse anche quando il mondo ti considera “scaduta”.

Un personaggio indimenticabile

Shelly non è un’eroina patinata. È una donna che ha fatto scelte difficili – come abbandonare la figlia per inseguire un sogno artistico – e che oggi si trova a ricostruire i pezzi della propria identità. Nella sua interpretazione, Pamela Anderson abbandona ogni maschera. È fragile, autentica, intensa. Come ha dichiarato lei stessa, «Voleva inseguire il suo sogno. Ha messo sé stessa al primo posto. E questo non la rende meno madre». Anderson conosce bene il prezzo della visibilità, del corpo esposto, del giudizio. E in questo film, girato in 16mm e tratto dalla pièce teatrale Body of Work di Kate Gersten, lo restituisce con una potenza commovente.

Un film sulle donne. Non solo giovani, non solo perfette

La regista Gia Coppola, nipote di Francis Ford, costruisce un affresco delicato e multigenerazionale. Jamie Lee Curtis, Kiernan Shipka, Brenda Song, Billie Lourd – ogni donna in scena incarna una diversa forma di femminilità, una diversa età, un diverso rapporto con l’autenticità e il compromesso. Le loro storie si intrecciano in un’atmosfera decadente e nostalgica, che celebra l’eleganza dello spettacolo ma ne rivela anche la fatica invisibile: costumi da 30 chili, audizioni crudeli, corpi misurati al millimetro.

Il problema non è l’età, è la società che ti cancella

Shelly viene scartata con freddezza a una nuova audizione: troppo grande, troppo datata, troppo tutto. E qui entra in gioco uno dei temi centrali del film – e del nostro tempo. Come ha dichiarato Gia Coppola:

«La discriminazione sull’età è un problema reale che molte donne devono affrontare. Apparteniamo a una cultura che dice “fuori il vecchio e dentro il nuovo”. È una storia che si oppone a questa logica».

Una storia che si lega perfettamente a quanto disse Meryl Streep in un’intervista memorabile del 2015:

«A una certa età, le uniche parti che ti offrono sono quelle della strega o della vecchia pazza».

E anche Demi Moore, oggi nuovamente alla ribalta grazie al film The Substance (acclamato a Cannes 2024), ha recentemente dichiarato quanto sia difficile – ma necessario – lottare contro la narrativa che trasforma il corpo delle donne in un oggetto con scadenza.

Pamela, Demi, Meryl: voci di una stessa ribellione

Oggi, mentre Pamela Anderson riceve standing ovation per The Last Showgirl e Demi Moore viene celebrata per aver incarnato la ferocia e la fragilità in The Substance, qualcosa si muove. Non basta parlare di inclusione se poi le attrici over 50 vengono silenziate o ridotte a caricature. Il corpo, l’età e il diritto di raccontare storie complesse devono tornare al centro del discorso culturale.

E The Last Showgirl lo fa con grazia, ironia, e uno sguardo che commuove.

In chiusura, una canzone – e una rosa

La chiusura del film è affidata a Beautiful That Way, cantata da Miley Cyrus e scritta da Lykke Li: un inno alla bellezza che sfiorisce ma non svanisce. Un omaggio alle madri imperfette, alle figlie arrabbiate, alle artiste dimenticate. Una rosa, come canta Miley, è bella proprio perché non è eterna.

The Last Showgirl non è solo un film. È un atto di restituzione, un monologo collettivo, un manifesto in punta di piume. Un’opera necessaria in un mondo che ancora fatica ad accettare che il valore delle donne non si misura in anni, ma in storie.